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Articoli e rubriche dell'Autore.

 

 

 

 

 

L’estetica e l’inutile

Una mia ex compagna di scuola mi ha confessato di aver problemi con l’interruttore delle fotocopiatrici. A voi capita di non riuscire a trovarlo quando siete di fronte ad un nuovo apparecchio elettrico? La tecnologia, di cui si sono decantate per decenni le virtù come un qualcosa da perseguire a tutti i costi, si è asservita all’estetica. La tastiera del computer, il cellulare, la lavatrice, l’aspirapolvere, la fotocopiatrice, le tasche dei pantaloni o i bottoni della camicia non sono realizzati pensando primariamente alla funzionalità di chi li userà, bensì all’immagine dell’oggetto nel suo insieme. Che l’utile e il bello non siano legati da una stretta parentela lo si sa bene - mi vien da pensare alle scarpe ortopediche di mia madre - ma con il trascorrere del tempo pensavo che si riuscisse a superare questa dicotomia, paragonabile alla lotta fra il bene e il male. Ad un certo punto ci hanno parlato di qualità e anche di parametri che la garantiscono in quanto contraddistinguente i processi produttivi, dal contenitore del latte alle materie usate per fabbricare il divano sul quale sonnecchiamo alla sera di fronte alla televisione. A volte, questa insistenza su quanto sono ottimi i prodotti pubblicizzati mi fa venire dei dubbi. Superare un certo livello di ovvietà ( è ovvio che dirai che il tuo prodotto è ottimo) è a mio giudizio offensivo, sembra quasi si voglia nascondere qualcosa. Insistono a ripetere che quel prodotto è garantito e ci si può fidare. Sì, ma lo faceva anche l’oste al quale si chiedeva un’inutile valutazione del vino che lui stesso vendeva. In realtà il problema è un altro. Fino a che punto abbiamo effettivamente bisogno dei prodotti per i quali ci arrabbiamo per capirne il funzionamento? Ricordo che alle elementari la maestra ci aveva invitati a scrivere un tema sulla possibilità, nel futuro, che le macchine riuscissero a sottometterci. Per giungere al dominio sull’uomo da parte delle macchine non è necessario comunque scomodare uno scrittore di fantascienza, è sufficiente pensare al nostro forno a microonde che ci spinge a selezionare certi cibi piuttosto di altri in quanto più adatti al forno a microonde, a lavare in un certo modo la superficie di cottura, a non introdurre certi tipi di piatti e magari a spostare pure la presa della corrente. La macchina ci condiziona, ci costringe a fare cose che non avremmo fatto o che comunque non avremmo fatte in quel modo. Quelli che dovrebbero essere i modi di utilizzare lo strumento, rischiano di trasformarsi in una gabbia che ci obbliga a fare le cose come le macchine lo sanno fare. Si rischia di perdere anche la capacità di fare in quanto si delegano le macchine a eseguirlo per noi. Tanto per rifletterci meglio, citiamo un esempio. Quanti sono in grado di eseguire una divisione del tipo 3.897 : 23? La calcolatrice, il primo esempio di macchina che ha addormentato la nostra mente, ci aspetta nel cassetto, la cerchiamo sperando che le batterie non si siano nel frattempo esaurite. Lo stesso Internet ci sta abituando a non sapere, tanto, si trova tutto su Internet e con questa scusa finiamo con il non sapere niente convinti di poter saper tutto. Questo discorso non può che ritornare all’effettiva utilità delle cose. Siamo condizionati dalla moda, dalla pubblicità, dal confronto con gli altri e allora ne acquistiamo di sempre meno necessarie. Stiamo riempiendo le nostre vite di quantità immani di oggetti che usiamo ben poco. Il cosiddetto ritmo frenetico della vita moderna ci conduce a comprare “roba nuova”, dimenticando che quella “vecchia” è ancora perfettamente utilizzabile, ma siccome è vecchia non è interessante. Ci siamo del tutto dimenticati del significato della parola accontentarsi, in una rincorsa sfrenata verso… verso cosa? - MarcaAperta - anno IX - n. 4 - agosto/settembre 2010.

 

 

Felici… nella mezza età.

Quando penso alla mezza età, mi chiedo se pure il buon Dante Alighieri non avesse voluto, “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, esprimere un’opinione sulla storia, così… per prendersi la soddisfazione di farlo liberamente, per sentirsi meglio. Potrebbe essere un’interpretazione, azzardata lo so, del motivo per il quale si è tanto accanito a lavorare sulla sua Commedia, a prescindere dall’aspetto strettamente letterario. Non riesco a credere, del resto, che il Padre della Lingua italiana ambisse a diventare di proposito… il Padre della Lingua italiana. Non credo all’arte con uno scopo, credo all’arte che ha bisogno di esprimere sé stessa, nulla di più. Se poi piace ad altri, meglio, altrimenti pazienza, ma di questo parleremo un’altra volta, se sarà il caso. Mi preme invece dire che la mezza età porta con sé – o per lo meno dovrebbe – l’essere in grado di analizzare in maniera più approfondita le vicende della vita, quelle andate e quelle attuali. A questo punto resta da verificare se la maturità acquisita possa rendere felici, o comunque – tanto per non esagerare – possa rendere più felici di prima, almeno un po’. Intanto chiediamoci che cosa, attorno ai 40 e ai 50 anni (la mezza età è questa, vero? Sì, lo sappiamo, non per Dante!), può significare essere felici? Risponderei facendo riferimento a due arcinote, quanto dissimili, scuole di pensiero. La prima la si potrebbe chiamare dei “Materialisti”. Mi si perdoni il vocabolo un tantino semplicistico, diciamo allora quelli dell’avere! I materialisti, alla nostra domanda, rispondono enumerando le cose che si dovrebbero possedere: una bella casa, un buon lavoro, una bella automobile, una bella famiglia, una seconda casa al mare e magari una terza in montagna e aggiungerei anche un consistente conto in banca. L’ordine può anche cambiare, può variare per le preferenze individuali, ma la sostanza rimane la stessa. L’altra scuola, che di converso dobbiamo denominare dell’essere – e da taluni denominata dei “rinunciatari non per scelta” poiché si maligna che questi si accontentino, come fa la volpe con l’uva che non può raggiungere - punta su possessi meno tangibili. Questi beni immateriali possono essere diversi e alle volte “apparire” assai originali: il vivere in un’abitazione sufficiente a sentirsi bene, svolgere un lavoro che favorisca la passione per esso, far parte di una famiglia nella quale ci si voglia bene davvero e non per finta e naturalmente godere di una buona salute, alla quale troppo poco si pensa, un po’ come la libertà. C’è chi si accontenta – che gente strana! - di avere del tempo per la lettura o semplicemente per pensare davanti ad un tramonto. Purtroppo, la felicità la si confonde – sempre di più - con la possibilità di esibire il successo e questo non si valuta con i sorrisi o con la calma interiore, bensì con gli oggetti, meglio se questi sono belli, nuovi e costosi. La mezza età, per tornare al problema, è tuttavia anche il momento in cui si diventa consapevoli di cose che sino ad allora sono state per così dire trascurate, per tanti motivi, che qui non è il caso di esporre. Si ha però l’opportunità di rimediare: da una parte dunque si capisce ciò che si ha da fare e dall’altra si ha il tempo di farlo. Che lo scoprire che cosa non si è fatto e impiegare il resto della vita per realizzarlo, sia una possibile via per la felicità? Tutto ciò per sentirsi bene con sé stessi, naturalmente! Comincerò da questo numero a pormi delle domande, assieme a voi lettori. Prossimamente parleremo anche delle altre età, dei dubbi e di quello che potrà anche essere ispirato dai vostri suggerimenti e commenti. Chissà che così facendo non si possa esser un po’ più felici, distinguendo ciò che è importante da ciò che solo lo sembra. Vi auguro una buona giornata. MARCA APERTA - giugno/luglio 2010

 

Arti marziali e psicoterapia.

Per noi occidentali, uno degli aspetti meno accessibili delle cosiddette arti marziali è il loro essere per così dire terapeutiche in quanto nate per essere utili più allo “spirito” che al corpo. Dobbiamo infatti chiarire una cosa: arte marziale è una definizione tutta nostra, che da un punto di vista rigorosamente orientale non ha molto senso. Del resto, arte marziale significa secondo la tradizione greca, arte bellica, in onore appunto al dio Marte, la divinità dedita alla guerra invocata come protettrice del guerriero prima della battaglia. Ma quello che noi occidentali intendiamo per arte marziale non è propriamente questo. Per capirci meglio è necessario fare un salto nel passato di circa 1500 anni e trasferirci dall’altra parte del mondo, in Cina. Una delle culle più significative delle tecniche di lotta orientali è senza dubbio il monastero di Shaolin, situato ad una ventina di chilometri a nord ovest di Denfeng, ai piedi del monte sacro Song Gao. I monaci elaborarono una sorta di pratica fisica volta a salvaguardare la salute delle articolazioni nelle lunghe meditazioni collegate alla religiosità buddista. Il fatto di essere isolati e di doversi difendere dalle frequenti aggressioni creò l’esigenza di rendere quest’attività adatta anche come autodifesa. Attraverso un perseverante studio e confronto durato per secoli, si sviluppò una vera e propria arte destinata a rendere i monaci, comunque ispirati al principio della non violenza, capaci di affrontare gli eventuali aggressori senza temerli, scoprendo che il nemico principale della vittima è sempre la propria paura. Leggendarie da allora divennero le loro gesta, di fronte a rapinatori non di rado salvati dalla delinquenza o ad animali feroci che avevano terrorizzato i villaggi circostanti. Quello che caratterizza l’arte marziale orientale è in primo luogo il fatto di essere sostanzialmente una filosofia di vita, un modo di gestire le proprie emozioni e dunque di autocontrollarsi in ogni situazione. La capacità di affrontare un avversario fisico è in realtà una conseguenza più o meno inevitabile, ma non la cosa più rilevante. Facciamo un esempio: un taglialegna potrebbe impiegare il suo principale strumento di lavoro, l’accetta, anche in battaglia, proprio grazie all’esperienza acquisita giorno dopo giorno. Ma questo non significa che lo si possa considerare un soldato impegnato quotidianamente nell’addestramento militare. L’avversario più importante da combattere è in ogni caso dentro di noi ed è costituito dall’insieme di paure che ciascuno conserva nelle profondità della mente. L’allenamento spesso solitario che gli stessi monaci e molti maestri orientali portano avanti per vite intere sono vere e proprie sedute terapeutiche nelle quali le paure più profonde prendono forma e diventano talmente reali da materializzarsi in nemici che li fronteggiano davvero. Le paure assumono la forma del gigante forzuto e prepotente, dell’avversario violento e sanguinario o del fantasma seminascosto nell’oscurità della notte. Tali conflitti rendono in grado di sostenere il timore del confronto e dunque di acquisire quel coraggio e quell’autocontrollo che nella lotta reale, quella corporea per intenderci, fanno la differenza. Lo studio della lotta e la graduale definizione di un proprio stile porta a rinforzare quindi non solo il proprio corpo, ma più che altro la propria mente e a contrastare nello stesso tempo, le proprie angosce, inevitabilmente alla base delle debolezze. Per questo motivo si può paragonare l’arte marziale ad una forma di psicoterapia adatta a contribuire alla maturazione del carattere e dell’intera personalità. SPORT & BEAUTY – ottobre/novembre 2008